Il Festival dedicato a John Cage che si tenne dal 5 al 20 maggio 1984 tra Torino e Ivrea, organizzato dall'Associazione Cabaret
Voltaire/Progetto Toreat in collaborazione con gli Assessorati alla Cultura della Provincia di Torino e Regione Piemonte, è stato
negli anni un po' schiacciato dai precedenti e più illustri passaggi di Cage in Italia (dalla sua permanenza milanese alla
fine degli anni '50, culminata con la partecipazione a
Lascia o raddoppia, a Il treno di John Cage
a Bologna del 1978 passando per il concerto al Teatro Lirico di Milano, Empty Words)
e la sua morte nel 1992. Al contrario, il festival merita di essere descritto ampiamente, poichè si tratta della più lunga manifestazione
italiana dedicata a Cage con il compositore presente.
Didascalia: John Cage a Torino
Cage non fu semplice spettatore, ma partecipò attivamente sia in qualità di oratore come ospite di conferenze, sia come esecutore. In prima italiana presentò infatti Muoyce e Mushroom Book. La rassegna vide inoltre l'anteprima mondiale dei primi sedici Freeman Etudes (Books I e II) suonati dal violinista ungherese János Négyesy e la realizzazione del primo Musicircus with children, con oltre 800 alunni delle scuole elementari coinvolti.
Durante le due settimane ci fu spazio per un'ampia pagina sui lavori di Cage per pianoforte, a cura del pianista Giancarlo Cardini, e un concerto per percussioni con il Cincinnati Percussion Group. Oltre ai concerti di musica cageana, vanno ricordati gli incontri di Cage con gli studenti di composizione del Conservatorio e la sua conferenza sull'avanguardia. Senza dimenticare la mostra photographs CAGE intorno al compositore allestita da Roberto Masotti.
Della rassegna, oltre agli scatti di Masotti, rimangono due documenti video. Il documentario di Marco di Castri H.C.E. - John Cage a Torino, che abbraccia tutto il festival attraverso estratti dai vari concerti, e il lungo servizio di Luciano Martinengo sul Musicircus with children realizzato per la Rai (di cui sotto potete vedere un estratto, dettagli nella sezione Video). Ecco comunque il programma completo:
Lunedì 7 maggio, Aula Magna della facoltà di Magistero, Università di Torino, ore 10.30: incontro con John Cage su L'avanguardia americana dal Black Mountain College a oggi
Martedì 8 maggio, Teatro Giacosa, Ivrea, ore 21 e giovedì 17 maggio, ore 21, Auditorium Rai, Torino: Music for Prepared Piano: Sonatas and Interludes, Winter Music, Solo for Piano [Giancarlo Cardini: pianoforte]
Mercoledì 9 maggio, Teatro Alfieri (non al Teatro degli Infernotti), Torino: Mushroom Book [John Cage: voce; Gigliola Nocera: introduzione]
Giovedì 10 maggio, giovedì, ore 16, al Conservatorio, incontro fra Cage e gli studenti del corso di composizione
Martedì 15 maggio Discoteca Big, concerto per percussioni (Amores, Imaginary Landscape n°2, Credo in Us, Branches) [Cincinnati Percussion Group: Allen Otte, James Culley e William Youhass, percussioni]
Sabato 19 maggio, Palazzetto Le Cupole, Torino, ore 10.30: Musicircus with children
Domenica 20 maggio, Centro Congressi La Serra, Ivrea, ore 21: Mushrooms et variationes [John Cage: voce; Gigliola Nocera: introduzione]
Didascalia: John Cage al Musicircus with Children, Torino
Infine qui in basso, grazie ai preziosi archivi online dei quotidiani La Stampa e l'Unità, potrete trovare un'ampia rassegna stampa relativa al Festival in cui ancora una volta Cage riuscì a scandalizzare. Se è rimasto famoso il clamore suscitato da Cage nel pubblico durante il suo famoso Empty Words a Milano (1977), altrettanto veemente fu la reazione di parte della platea durante la performance di Muoyce a Torino: fischi, urla e contestazioni di vario tipo. Ma Cage naturalmente uscì dal Teatro con il suo classico sorriso, per nulla contrariato, come se niente fosse accaduto.
(si ringraziano gli archivi storici de La Stampa, l'Unità e de La Repubblica per le trascrizioni dei suddetti articoli)
Cage: Nella musica mi è amico il caso
(sottotitolo: È il modo per accettare tutto il mondo sonoro, che ha un significato in se stesso – Ora preferisco Mozart a Bach – Parla il compositore, che ieri con Muoyce ha aperto la manifestazione dedicatagli a Torino)
(da La Stampa, domenica 6 maggio 1984, n°107, pag 19, di P. Gal.)
John Cage è raggiante. La pioggia che lo ha accolto al suo arrivo a Torino promette grandi cose in fatto di funghi e il musicista-micologo, che leggerà mercoledì sera alcune parti del suo Mushroom Book (libro dei funghi) al Teatro degli Infernotti, non si augurava di meglio. C'è solo una punta di rimpianto in questa sua venuta in Piemonte: quella di non essere ancora riuscito a realizzare la progettata sonorizzazione di un bosco applicando microfoni e altoparlanti alle piante e agli arbusti d'un monte nei pressi di Ivrea che per lui è l'unico posto al mondo adatto allo scopo. Il progetto, tuttavia, è solo accantonato. Per ora Cage ha cominciato ad esibirsi a Torino come fine dicitore. La prima nazionale di Muoyce (Music-Joyce), ieri sera all'Alfieri, lo vede infatti imperniato in questo ruolo.
Qual è il meccanismo di questo lavoro? Muoyce è un montaggio di frasi, parole, sillabe e lettere tratte da Finnegan's Wake di Joyce. Lo leggo io, per un'ora e 50 minuti, sottolineando le implicazioni musicali contenute in circa quattromila eventi sonori determinati dal caso.
Che funzione ha il caso nella sua musica? Il caso è assenza d'intenzione, una maniera di liberarsi dal condizionamenti del gusto, dalle preferenze e non preferenze personali. È un modo per accettare tutto il mondo sonoro, che ha un significato in se stesso.
Non crede che questa sua ideologia, dotata indubbiamente d'una carica di protesta e di rottura dieci o vent'anni fa, sia oggi superata e abbia perso il suo mordente? Non mi curo del passato. Io continuo per la mia strada.
Didascalia: John Cage sorride
Quali progetti ha in cantiere? Sto scrivendo degli studi per violino solo. A Torino, il 13 maggio, ascolterete i primi sedici, dedicati a Betty Freeman, una mecenate americana che li ha commissionati. Ora ne sto scrivendo altri sedici. Alcuni saranno ineseguibili. Ma si troverà il modo di eseguirli, magari con il sintetizzatore. È una sfida.
Quali sono i suoi rapporti con la tradizione? In che senso?
Prima di noi ci sono stati certi autori con cui bisogna fare i conti. Seguo la tradizione. Seguo le opere di Schoenberg di cui sono stato allievo, più che quella di Stravinski. Mi piace Erik Satie.
Ma Schoenberg non ha mai lasciato molto spazio all'alea. Sì, ma aveva una mentalità musicale omnicomprensiva, per lui c'erano infinite soluzioni a certi problemi, ad esempio quelli contrappuntistici.
Ricorda certi momenti trascorsi in America alla scuola di Schoenberg, dove fu impressionato dalla personalità magnetica del maestro. Che cosa vuol dire per lei scrivere musica? Vuol dire porre delle domande: ogni volta la risposta cambia.
Quali le sue preferenze musicali? Adesso mi piace Mozart. È meglio di Bach.
Perché? Perché punta sulla molteplicità, che m'interessa più dell'unità.
Gentilissimo, mite, con un sorriso soave, Cage sorseggia il the delle cinque, guardando compiaciuto gli scrosci di pioggia. Mi congeda dopo avermi fatto notare che dal suo discorso bandisce le parole di potere e che la sua musica non è dominata, come io avevo azzardato, ma solo facilitata dal caso; e lo sarà anche nel prossimi esperimenti col computer.
(da La Stampa, lunedì 7 Maggio 1984, di Enzo Restagno)
Alle nove e trentacinque dell'altra sera John Cage compare sul palcoscenico del Teatro Alfieri: casacca e pantaloni jeans alquanto lisi vestono il fisico agile e un po' allampanato di questo enfant terrible della musica nato a Los Angeles settantadue anni fa e capitato a Torino per un festival a lui dedicato che durerà una quindicina di giorni.
La sala è gremita ed entrare non è stato facile: gli organizzatori del Cabaret Voltaire e degli assessorati alla Cultura si fregano compiaciuti le mani. John prende posto dietro un tavolino sul quale sta un microfono ed apre una cartella: è la prima esecuzione nazionale dell'opera Muoyce — titolo ricavato dall'unione delle parole Music-Joyce — ma sapere che il testo è ricavato dalle parole di Finnegan's Wake triturate e ricomposte in fonemi inafferrabili non ha molta importanza.
John canticchia a bassa voce valendosi dell'amplificazione microfonica con molta discrezione: il tono è quello di una salmodia paragregoriana disponibile a tutti gli sbaragli del caso. La performance durerà esattamente un'ora e quarantacinque minuti, sempre uguale, sempre con la stessa intensità, solo costellata da qualche pausa che pare incidentale e invece è articolata con tempismo psicologico e musicale straordinario.
Didascalia: John Cage impegnato nella lettura di Muoyce al Teatro Alfieri
Nel pubblico qualcuno sa e qualcuno no quello che accadrà, così dopo una quindicina di minuti ci sono le prime manifestazioni di impazienza: borbotta, miagola, bisbigli, poi con più coraggio qualche manifestazione di dissenso, ironica, indispettita, crescente come un fiume in piena.
Scoppiano dissensi tra il pubblico, una ragazza che agita un mazzo di chiavi troppo rumorosamente si busca un sonoro ceffone da un professore indispettito, nasce un breve alterco. Qualcuno si concede al ritmo cullante di quella nenia interminabile, pensa all'oriente del quale sa che John è cultore, pensa di aver ragione e se ne sta beatamente rilassato sulla poltrona. Altri, non troppi, si alzano e se ne vanno, la maggior parte resta per sperimentare fino in fondo la violenza terribile scatenata da quella voce così mite che fora discretamente tutti i dissensi.
Poche volte abbiamo ammirato Cage come sabato sera; la sua capacità di orchestrare il nulla, di spremere da quella sorta di vuoto pneumatico in cui imprigiona gli ascoltatori, delle reazioni è perfetta. Quel canto monotono, insignificante ed implacabile si trasforma in una enorme superficie riflettente sulla quale passano ingigantite le ombre della banalità del pubblico, le volgarità disarticolate delle parolacce e dei dissensi disorganizzati.
L'eroe del negativo, di colui che a suo tempo mise in crisi i sacerdoti dello strutturalismo di Darmstadt possiede ancora grinfie affilatissime. La sua incidenza sui destini della musica contemporanea è un fatto ormai archiviato da anni, ma di fronte alla banalità, all'impazienza, a tutte le forme di aggressività che si manifestano attraverso suoni disarticolati, lui resterà sempre un protagonista.
(da La Repubblica, martedì 8 Maggio 1984, di Patrizio Gerus)
Chi sa se John Cage ha mai avuto nel centro di una città americana un immenso cartello pubblicitario con la sua fotografia ed il suo nome come quello che da qualche giorno si vede a Torino in piazza Castello? I musicisti americani hanno in Europa ottime accoglienze ed ora Cage ha avuto tra Torino e Ivrea un festival di quindici giorni tutto per lui organizzato dal Cabaret Voltaire, dagli assessorati per la cultura della Regione e della Provincia, dal Conservatorio e dall'università che lo accolgono nelle proprie aule per farlo incontrare con gli studenti.
L'inizio della rassegna non presentava però l'immagine di un Cage accademico ma quella retrospettiva dell'abile provocatore capace di trasformare le reazioni del pubblico in spettacolo. È accaduto sabato sera al Teatro Alfieri con la prima rappresentazione italiana di un'opera intitolata Muoyce. In realtà si tratta di una delle classiche performance di Cage ove il termine Muoyce deriva dalla contrazione delle parole Music-Joyce. Da Finnegan's Wake Cage preleva alcuni materiali verbali, li scompone e ne ricava dei puri fonemi che vengono a costituire il testo della sua opera. In un teatro stracolmo di pubblico - Cage ha il carisma dei personaggi inquietanti - viene alla ribalta e si piazza dietro a un tavolino con un microfono. Con voce morbida e tranquilla comincia a canticchiare i suoi fonemi, non abusa dell'amplificazione microfonica, procede imperterrito seguendo le linee di una studiatissima monotonia. Il canto si compone di una sequela ininterrotta di milismi paragregoriani che qualche volta catturano i controcanti ironici del pubblico spazientito.
Tra i molti significati più o meno cervellotici che si possono attribuire alla performance di Cage sceglieremo quell'unico che per quanto vecchiotto continua a funzionare, quello del game con il pubblico. Preso nella trappola della monotonia esasperata dei melismi di Cage il pubblico si abbandona a reazioni diverse. Qualcuno, ma sono pochi, cede al richiamo un po' becero delle pratiche orientali e si adagia soddisfatto nel suo piccolo nirvana intellettuale, qualcuno stizzito abbandona la sala e altri reagiscono con schiamazzi, parolacce, fracasso e bordate di controcanti prelevati dai fondi più sguaiati della memoria musicale. Coloro che rovesciano questo pattume sonoro credo siano gli spettatori prediletti di Cage, quelli cioè che meglio reagiscono alla sua crudele maieutica negativa.
La bruttura fonica di una protesta disarticolata è la metafora spietata della condizione dell'uomo moderno nella prospettiva musicale. Il vecchio Cage in quella tempesta non si turba: ha un mestiere formidabile fatto di affilatissime sottigliezze psicologiche. Ogni tanto si interrompe a bella posta, per far accavallare le ondate del dissenso, poi con l'abilità dello stoccatore che ha scorto una smagliatura nell'apparato offensivo dell'avversario, riparte con tempismo infallibile. Quella nenia discreta e insignificante perfora tutte le resistenze e rivela dietro l'apparente fragilità una energia implacabile. Il game dura un' ora e quarantacinque minuti: di fronte all'eroe del negativo che in anni ormai lontani rovesciò le barricate intellettuali di Darmstadt, il pubblico è alle corde e con l'accendersi delle luci si scatena una tempesta di applausi. L'enfant terrible nato a Los Angeles 72 anni fa si inchina compito e sornione di fronte a quel pubblico per il quale nei prossimi giorni ha ancora in serbo molte sorprese.
(da l'Unità, mercoledì 9 maggio 1985, di Franco Pulcini)
La sottile violenza del vuoto non ha mancato di scatenere un ennesimo psicodramma collettivo. Il sadico gioco della verità è riuscito perfettamente a John Cage, che ha presentato in prima italiana al Teatro Alfieri una lettura da Finnegan's Wake di Joyce. Intitolata Muoyce, ovvero Mu(sic-j)oyce, accolto dal pubblico con urla, fischi e cori di disapprovazione conditi con molte parolacce. È stato il primo appuntamento di una lunga serie che si dipanerà per due settimane tra Torino e Ivrea, per un'iniziativa di Cabaret Voltaire/Progetto Toreat e gli Assessorati alla Cultura di Regione e Provincia. Difficile dire se le aspettative siano state effettivamente deluse. Finnegan's Wake (la veglia di Finnegan) è il romanzo ispirato ad una ballata irlandese che Joyce fa svolgere nell'arco di un'ora, così come Ulisse si compiva in un giorno. Il flusso di coscienza della sua narrativa ha in queste pagine la complicità del dormiveglia e si irradia in una fitta rete di relazioni, analogie, allusioni; inestricabili per molta critica.
In un mirabile articolo del linguista rumeno Georges Sandulesco, intitolato The Joycean archetype, apparso l'anno scorso, si dimostra che la lingua di Finnegan's Wake si presenta spesso come la deformazione di preghiere, soprattutto del Padre Nostro, che diventa: panther monster, father ourder, afather noiser, our faryner, fadevor, fader huncher, ecc. Non sappiamo se Cage nella sua versione abbia voluto cogliere tali aspetti ritual-ecclesiastici, ma per un'ora e quaranta minuti, su frammenti del criptico romanzo, ha intonato una nenia di sapore arcaico iterata fino all'ipnosi.
Chissà cosa ne avrebbe pensato Joyce, che voleva fare il cantante lirico? Non è la prima volta che l'inclassificabile musicista americano compie operazioni del genere, ma molti del pubblico forse non lo sapevano. Né si era pensato a distribuire passi del testo in italiano o uno scritto in cui si spiegasse per bene il senso dell'operazione. Ad alcuni, comunque, quella lagna, per diecimila lire, è parsa forse un po' poco. Dopo dodici minuti esatti, da noi malignamente cronometrati, sono cominciati i brusii. E in breve questa moltitudine di intellettuali (virgolette), per colpa di una parte, ha fatto una figura penosa, oltreché scontata. Evitando accuratamente, per rispetto dei lettori, le parecchie frasi oscene, alcune delle quali maleducatamente in inglese, la cronaca segnala versi di animali, sirene, ululati, canzoni da osteria, urla isteriche, Juve, viva il Catania, ecc. La cultura musicale della sala che partecipava si è espressa solo a base di Fra' Martino e Nel continente nero paraponzi-ponzi-po. C'è stato pure un ceffone e un ironico Cage for president.
Si è avuta la netta impressione che per i più Cage fosse un nome letto dietro qualche copertina di disco rock, non l'inventore della musica concettuale che aveva messo alle corde trent'anni fa gli inventori della musica seriale del dopoguerra (Boulez e Stockhausen).
(da La Stampa, n°114, martedì 15 maggio 1984, di P. Gal.)
Il violinista János Négyesy ha presentato l'altra sera al Conservatorio i Freeman Etudes per violino solo di John Cage, una raccolta di sedici pezzi scritti dal compositore nel 1977-78 e dedicati a Betty Freeman, la mecenate americana che li ha commissionati. Per scrivere questi pezzi Cage ha studiato la tecnica violinistica con l'aiuto di Paul Zukofski, il solista cui i pezzi sono stati destinati per l'esecuzione: ne è nato un lavoro stilisticamente omogeneo, che conduce l'ascoltatore per più d'un'ora nei paradisi dell'ipnosi musicale.
I pezzi procedono, secondo la scrittura tipica di Cage, per piccoli impulsi che si spengono lasciando, spazio ad altri impulsi in un continuo, inesorabile sgocciolare di eventi sonori. Dominano le note lunghe che muoiono in 'decrescendo', e vengono trapiantate nel vari registri dello strumento, diversamente colorate attraverso i modi di attacco: sulle corde, sul ponticello, suoni flautati, eccetera.
Didascalia: János Négyesy esegue i Freeman Etudes
Il repertorio di sibili realizzati con le note tenute è variegato, qua e là da figurazioni più estese: rapidissimi disegni che guizzano tra pause più o meno lunghe, riempiendo qua e là i vuoti del silenzio. Tutti questi frammenti si succedono, senz'ombra di costruzione sintattica, ma per puro accostamento meccanico mettendo a dura prova la pazienza dell'ascoltatore refrattario alle suggestioni della narcosi musicale. Eppure, la platea del Conservatorio ha seguito il concerto in attento silenzio, appena incrinato da qualche timido segno d'irritazione.
Per quanto si possa capire dai pezzi in questione, il violinista Négyesy è parso assai bravo, e dev'essersi proprio meritato gli applausi cordiali che il pubblico ha voluto rivolgergli. John Cage, presente in sala, è salito alla fine sul palcoscenico per ringraziare gli ascoltatori.
(da La Stampa, n°115, mercoledì 16 maggio 1984, di L.V.)
Di fronte a un folto pubblico di giovani, molto attento, il violinista János Négyesy ha eseguito l'altra sera al Conservatorio, i sedici pezzi che John Cage ha scritto per solo violino. Presentato a Ivrea, dov'è stato accolto con alcune proteste*, il concerto di Torino è stato maggiormente apprezzato. Molti gruppetti, al termine dello spettacolo, si sono fermati a discutere animatamente le proprie impressioni sul concerto in particolare sulla sosta torinese, che si concluderà domenica 20 maggio, di John Cage.
Io non riesco a capire il perché di tutto questo panico e scandalo suscitato dagli spettacoli 'Cageiani' — dice Roberto Maffoddi, uno studente di 26 anni — Per chi conosce, nessuno stupore nel trovarsi ad ascoltare una musica d'avanguardia, fatta di tanti suoni perfettamente armonizzati. Per chi è solo curioso, beh, che se ne stia a casa.
Non è d'accordo Antonietta Cabodo, impiegata di 33 anni che sostiene: Questa non è musica, va bene essere sperimentali e voler ricercare cose nuove, ma questo mi pare esagerato. Forse non ho capito niente, ma le note che ho ascoltato mi sembravano un' accozzaglia di rumori, quasi lì per caso.
Ci sono poi gli intenditori come Giacomo Rossi, che sostiene: Cage è un vero e proprio genio, a volte incompreso, che sa comunicare, attraverso la sua musica molto rigida e coraggiosa, emozioni intense, che colpiscono in profondità.
Marcello Pasta, insegnante di 29 anni, afferma: È una musica prevalentemente estetica, priva di contenuti e confinata ad una élite di musicofili. Mi ha provocato solo una sensazione di noia. Per Simonetta Varetto, ballerina La musica di Cage ha bisogno di un supporto d'immagini. Così, da sola, è troppo noiosa e difficile da seguire e capire. Certo è che Cage è uno strano personaggio, affascinante ed inquietante.
* Come ricorda lo stesso János Négyesy, già dopo la prima nota iniziarono i mugugni che continuarono per l'intera durata del concerto. Non si trattò solo di fischi e urla però. Gli furono lanciati aeroplanini di carta, carta igienica e, a una pagina dalla conclusione, persino una bottiglia di vetro che si frantumò ai piedi del violinista, inzuppandone i pantaloni. Tale caos non fu spontaneo tuttavia. Sembra infatti che alcune signore che avevano assistito a un precedente concerto di musica d'avanguardia, non avendo per nulla apprezzato ciò che avevano udito, avessero pagato alcuni ragazzi per fare baraonda durante l'esecuzione di Négyesy. Appena concluso il concerto, Négyesy fece un rapido inchino e si ritirò dietro le quinte, dove Cage gli chiese sorpredentemente di uscire per un secondo saluto.
Qualche giorno dopo, a Milano per una nuova esecuzione dei Freeman Etudes, per timore di nuovi tumulti, Négyesy fu osservato a vista da poliziotti con armi automatiche. Il concerto filò liscio, ma Cage disse a Négyesy di aver rimpianto l'assenza di intemperanze.
(traduzione di un estratto del testo di Peter Edwards per il programma dei Freeman Etudes eseguiti da Jànos Nègyesy per l'Università di San Diego, UCSD, il 3 ottobre 2012).
(sottotitolo: Alla discoteca Big il concerto Branches con il Cincinnati Percussion Group. Fatalmente diminuito l'impatto dissacrante delle trovate goliardiche con cui il compositore faceva furore vent'anni fa. Tre pezzi degli Anni 40 dimostrano che Cage può essere, quando vuole, un autore eccellente oltre che un grosso personaggio con una carica di simpatia)
(da La Stampa, n°116, giovedì 17 maggio 1984, di Massimo Mila)
Una inveterata passione per gli strumenti a percussione mi ha fatto scegliere, tra i tanti spettacoli e concerti che infiorano l'eccezionale presenza di John Cage in Piemonte, quello del Percussion Group di Cincinnati: Allen Otte, James Culley e William Youhass, tre simpatici giovanotti per i quali tastiere, tamburi, vibrafoni, xilomarimbe, gong, cimbali e ogni sorta d'oggetti capaci di produrre rumore, non hanno segreti.
Il concerto s'intitolava Branches, dal nome di uno del pezzi di Cage ivi eseguiti, il più recente (1976), quello più mistificatorio e 'scandaloso' dove, riprendendo certe inclinazioni culinarie già manifestate nel celebre Fontana Mix, il compositore siede i suoi tre baldi giovanotti a un tavolo di cucina dove bolle una pentola, e piselli, popcorn e altri vegetali forniscono i loro appena percepibili rumori a una specie di vegetariana Sinfonia domestica.
Che senso hanno queste trovate goliardiche con cui Cage faceva furore una ventina d'anni fa? Si suol dire che fu un provvidenziale fenomeno di rottura. Per rompere, ha rotto molto, ma che cosa? Senza cedere alla tentazione di volgari doppi sensi, si risponde che ha rotto l'egemonia dodecafonica esercitata dalla scuola di Darmstadt. E va bene, ammettiamo pure, sebbene sia lecito pensare che gente scaltra e spregiudicata come Berio e Maderna sarebbero arrivati da sé a liberarsi da quella scolastica tirannia, del resto necessaria com'è necessaria ogni scuola.
Oggi che non c'è più niente da rompere perché tutto è rotto, e già c'è chi si dà da fare nella speranza di rimettere insieme i cocci, l'impatto dissacrante delle barzellette foniche di Cage è fatalmente diminuito. Come dice Borlolotto Un conto è la poetica, il pensiero musicale di Cage e un conto è la musica che Cage ha fatto. Sotto questo aspetto, si può concordare nella constatazione del medesimo scrittore, Cage essere la persona che meno si è avvalsa come compositore di quanto ha dato dopo gli Anni Cinquanta.
Le prove d'essere un compositore autentico, con tutte le carte in regola, Cage le aveva date da giovane, con quei pezzi per pianoforte preparato dove la truccatura dello strumento era poco più di un bluff, sovrapposto alla realtà di un consistente pensiero musicale, estrema e non indegna propaggine del nuovo continente conquistato alla poesia pianistica da Debussy e da Scriabin e poi ulteriormente esplorato da Bartók e Schoenberg.
Didascalia: Il Cincinnati Percussion Group alle prese con Branches
Amores, del 1943, Imaginary Landscape N. 2, del 1941, e il fragoroso, perfino eloquente Credo in Us, del 1942, dove un pianoforte, la percussione e un altoparlante di radio concertano reminiscenze blues, hanno offerto l'altra sera prove persuasive del fatto incontestabile che John Cage è stato e può sempre essere, quando vuole, un eccellente compositore, oltre che quel grosso personaggio, fornito d'una carica irresistibile di simpatia, festeggiato l'altra sera dal pubblico giovane della discoteca Big: un'insolita Wonderland con tutte le sue luci colorate, i suoi giochi di specchi, la sua attrezzatura da Mille e una notte, almeno per chi sia abituato soltanto ad austere sale di Conservatorio.
I tre bravi percussionisti del Gruppo di Cincinnati sono stati assai applauditi, specialmente dopo un difficile pezzo del pianista Frederic Rzewski, intitolato Les moutons de Panurge: un divertente, anche se lungo, giochetto aritmetico per tre xilofoni basato sulle combinazioni, trasposizioni e sottrazioni successive di 64 note. È probabile si tratti di rottura anche qui: le peripezie di queste note che si susseguono in una gigantesca serie sempre decapitata, come i montoni di Panurgo che saltarono tutti in mare dietro al primo, si possono forse intendere come una satirica allusione rabelaisiana alla schiavitù numerica della dodecafonia ortodossa.
Cage, il pianoforte non è più lo stesso; i suggestivi Sonatas and Interludes
(da La Stampa, n°119, domenica 20 maggio 1984, di P. Gal.)
Nel 1946-48 John Cage scrisse quella raccolta di pagine per pianoforte preparato che vanno sotto il titolo di Sonatas and Interludes. Schoenberg era ancora vivo e Cage ne frequentava la scuola, ma questi piccoli pezzi si rifanno piuttosto al lato stravinskiano della musica contemporanea e ancor di più a Bartòk, presentandosi come una sorta di orientaleggiante mikrokosmos dove le scale per toni interi ricordano Debussy, ma la frequenza dell'ostinato ritmico, con i suggestivi effetti di musica notturna, rimanda irresistibilmente all'esperienza del compositore ungherese, trasferitosi in America nel 1940.
L'interesse per il pensiero orientale e il gusto per una musica iterativa o meglio, fondata su minimi scarti armonici, ritmici e melodici, affiora in questi pezzi, realizzandosi in una compiuta volontà di espressione.
Didascalia: Giancarlo Cardini prepara il pianoforte
La preparazione del pianoforte, cioè la manipolazione delle corde con l'inserimento di corpi estranei, aggiunge alla gradevole raccolta, piena di fantasia ritmica e di un delicato sapore infantile, l'apporto di una curiosa polifonia timbrica.
La tastiera ha zone squillanti con la risonanza di campane, altre dal timbro ottuso e felpato, qualche nota, infine, francamente metallica con un effetto di corda pizzicata. Il tutto giocato in modo da dare l'impressione di due o tre strumenti che suonano contemporaneamente ma in lontananza, come avvolti nella bambagia o immersi nell acqua. Nulla sembra casuale in questa raccolta che è perciò agli antipodi di quello che Cage avrebbe fatto negli anni seguenti (anche se lui non lo crede).
Di questa goliardica produzione successiva ha dato un saggio all'Auditorium il pianista Giancarlo Cardini nella seconda parte del concerto, organizzato dal Cabaret Voltaire, in cui s'era fatto ammirare per la scrupolosa esecuzione di Sonatas and Interludes.
Winter Music del 1957 é una serie interminabile di accordi e di note singole inframmezzate da lunghe pause cronometrate; Solo for piano del 1957-58 è un pezzo di teatro rumoristico dove il pianista non suona una nota ma è chiamato ad ogni sorta di operazioni: agita lastre metalliche, aziona suonerie, radio, trenini a molla, spacca bottiglie e rompe una pila di piatti, proprio come Figaro nel Barbiere di Siviglia, e alla fine congeda il pubblico che, lungi ormai dallo scandalizzarsi, finisce per sorridere, divertito.
(da l'Unità, martedì 22 maggio 1984, di Franco Pulcini)
Le due settimane di John Cage in Piemonte promosse da Cabaret Voltaire-Progetto Toreat, si sono concluse con una imponente performance in uno spazio sportivo della periferia chiamato Le Cupole, alla quale hanno preso parte ottocento bambini. Si tratta di una manifestazione, per così dire, di ripiego, in quanto il progetto iniziale doveva essere the amplified park project, ovvero la sonorizzazione di un bosco. Quest'idea, nata per i bambini e a loro dedicata, non ha potuto essere realizzata quest'anno per l'indisponibilità improvvisa del tecnico che con Cage avrebbe dovuto, grazie alla tecnica, dare voce ai funghi, alberi e fili d'erba. Si è fatto allora Musicircus un esperimento già realizzato, con adulti, due volte: in America e a Parigi, alle Halles, i vecchi mercati. Si tratta di disporre in uno spazio vasto vari gruppi di esecutori che, simultaneamente, seguiranno il loro repertorio. In questo caso, trattandosi di bambini dai 4 ai 12 anni, c'erano coretti, canzoncine ad una o più voci, giochi e danze delle colonie, pezzettini per ensemble di flauti magici, balli popolari in costume. Il pubblico poteva contemplare dall'alto lo spettacolo, godendosi il frastuono organizzato di tale caos infantile, oppure passeggiare in mezzo ai gruppi, sentendo o guardando liberamente secondo interesse.
C'erano alcuni gruppetti particolarmente affiatati, con insegnanti-animatori schitarranti e scapigliati. Altri, quelli dei più piccoli, erano un po' intimiditi per la moltotudine vociante. Cage, secondo quanto scritto nel programma generale, avrebbe dovuto dirigire il concerto. In realtà il simpatico profeta in jeans ha firmato autografi per tutto il tempo, con le sue povere mani tormentate dall'artrite. Forse i bambini s'immaginavano che fosse un cantante pop, come quella nostra amica, neppure troppo sprovveduta, incontrata alla mostra fotografica su Cage di Roberto Masotti; bellissima tra l'altro.
Coesione di due sensibilità sperimentali, punto d'incontro di due universi distruttivi della sacralità del suono e del gesto, chiave d'unione nelle avanguardie di musica e balletto, il compositore americano John Cage ha dimostrato ancora una volta, nei suoi recenti incontri col nostro pubblico, di essere quella singolare personalità di musicista aperto ad ogni nuova esperienza, avido di ricerche e sempre pronto a indagare le infinite iridescenze della percezione.
Ma se la sua figura è stata ampiamente sottolineata dalla critica musicale presente ai suoi happening, vorremmo ancora ricordare questo allievo di Schoenberg per il suo determinante apporto alla danza moderna, e per l'influsso esercitato sui coreografi della terza generazione, quelli venuti cioè dopo i precursori della Denishawn e dopo Martha Graham.
Con John Cage, il loro nuovo ventaglio di espressioni corporee abbandona definitivamente ogni messaggio politico, si apre al teatro dell'assurdo e utilizza la musica, elettronica, concreta e dei sintetizzatori, fortemente influenzata dalla sua estetica musicale che, facendo l'apologia dei rumori contro la razionalità delle composizioni canoniche, non cerca più di armonizzarsi, ma semplicemente di coesistere, quanto a durata di tempi e misure, con la partitura coreografica.
Anche dopo gli Anni Settanta l'evoluzione della modern dance sarà condizionata da questa musica anticonformista, povera sul piano melodico ma fortemente ritmata, ripetitiva, spesso indipendente dalle figurazioni coreutiche per eliminazione del sincronismo, fra gesto e suono, alla luce di una nuova percezione del tempo e dello spazio. Sarà appunto il fattore spazio sino allora incompletamente trattato, quello maggiormente esplorato. Ed il movimento di danza, o di non danza, rifletterà l'avvenimento immediato, prevedibile o imprevedibile, inteso come gesto isolato della vita quotidiana.
Ma fu proprio John Cage, il compositore più rivoluzionarlo della sua generazione, l'inventore del piano preparato con suoni degradati, il pioniere dei nastri registrati, a fornire le musiche adatte a queste tesi. Musiche che riflettevano la sua visione contemplativa e anti-egocentrica dell'universo, la sua filosofia zen ed il suo humour, espresso ad esempio nell'eseguire la propria composizione Butterflies dopo aver liberato nella sala da concerto una nuvola di variopinte farfalle. Quasi a sottolineare il suo credo: Non imporre mai nulla, lasciare esistere, permettere ad ogni persona, come ad ogni suono, di essere il centro del mondo.
Il suo influsso sulla danza sarà così precoce e determinante che già nel 1942 Jean Erdman, un'allieva della Graham, sceglierà le musiche di Cage per le sue prime coreografie: Forever and Sunsmell, Daughters of the Lonesome Isle, Ophelia. Egualmente faranno Valeria Bettis, allieva di Hania Holm, con And the Earth Shall Bear Again; Merle Marsicano nel 1952 con Idyl, Passage e Fragment for a Greek Tragedy; Hans van Manen nel '72 con Twilight e Solo for Voice V, ed Emery Herman con The Pallid Horse. Abbiamo lasciato per ultimo il sodalizio più importante: quello fra Merce Cunningham e John Cage.
Ma è il più noto. Una collaborazione che dura dal 1942, dal primo assolo di Cunningham (Totem Ancestor), e che si è protratta sino ai giorni nostri, dall'Art Club di Chicago allo Studio Theatre di New York (Root of an Unfocus, Spontaneus Earth), dalla Ballet Society di Lincoln Kirstein (The Seasons) alla Fenice di Venezia (Music Walk with Dancers) e all'Opera di Parigi (Changing Steps, Un Jour ou Deux). Una coppia che in quarant'anni si è imposta con crescente successo alle platee di tutto il mondo.