Articoli:
Rassegna stampa alla scomparsa di John Cage

In questa pagina sono raccolte alcuni articoli scritti all'indomani della morte di John Cage, il 12 agosto 1992 a New York. Tali articoli provengono dagli archivi storici dei quotidiani La Stampa, il Corriere della Sera e la Repubblica.



Cage, l'astronauta dei suoni

(di Mario Pasi, Corriere della Sera, venerdì 14 agosto 1992)


(sottotitolo: Voleva sposare la musica con lo spirito e con la natura)

Il compositore americano John Cage è morto l'altro ieri sera al St. Vincent's Hospital di Manhattan in seguito a collasso cardiaco. Era nato a Los Angeles 79 anni fa. È stata lunga e operosa la vita di John Cage, il compositore americano che più di ogni altro nel suo Paese ha saputo donare alle giovani generazioni il gusto della ricerca, della sperimentazione e la voglia di andare oltre le frontiere.

Era ancora stato a Perugia, all'inizio di quest'estate, per onorare il suo mestiere e per ricevere l'affettuoso omaggio degli artisti italiani. Da tempo, lo sapevamo, soffriva di cuore, ma non intendeva risparmiarsi; era riuscito a conciliare il lavoro di musicista con un rapporto felice con la natura, con il lato più puro dell'umanità, i bambini. E quasi ripercorrendo i vecchi sentieri dei pionieri si era immerso nei profumi dei boschi e della terra coltivando (scientificamente, diceva) la sua passione per i funghi. Così aveva preso un'aria un po' rustica, un po' all'antica, e sempre più spesso un sorriso addolciva i suoi tratti prosciugati dagli anni.

Questo intellettuale innamorato della tecnologia, delle novità, delle idee più diverse e difficili, pareva voler tornare ogni tanto a una quasi religiosa semplicità; si divertiva ad affidare la musica ai bambini come gioco, perché la vivessero da dentro e non la trovassero difficile e aveva organizzato una sorta di cerimonia, di festa, con gli scolari in un recente Settembre musica a Torino. E ragazzi di varie età avevano risposto con gioia all'invito.

Si potevano dire molte cose di Cage: un eccentrico, un pioniere, un inventore, uno scopritore di mondi lontani, un astronauta della musica. Egli sapeva offrire in continuazione trovate e sorprese, poteva viaggiare con lo spirito in Europa e in Oriente, sfiorare lo Zen e l'arte più avanzata; ma la sua caratteristica principale restava la spiritualità americana. C'era in lui una indeformabile qualità yankee, fatta di fiducia e ottimismo, di una forse ingenua filosofia del bene. Risolveva i problemi dell'arte con la certezza di essere nel giusto e la sensazione di fare sempre qualcosa di utile al mondo. Lo spirito della frontiera, così dentro allo spirito degli americani, spinse Cage ad andare oltre le regole riconosciute e a usare mezzi di espressione diversi, nuovi, modificati.

Prima di lui aveva tentato di aprire nuove strade alla musica, in perfetta solitudine, Charles Ives, che aveva superato per conto suo il vecchio ordine tonale per correre ad avventure di ogni tipo. Ives, che solo in tarda età, negli anni '40, dopo che ebbe fatto fortuna nel campo delle assicurazioni, vide riconosciuti i suoi meriti, voleva che i confini della musica fossero quelli dell'universo. Cage pose invece la sua ansia di rinnovamento al servizio delle forme artistiche più avanzate e meno tradizionali, leggendo la storia del suo Paese con un senso eroico della modernità e sfuggendo a ogni retorica nel segno di un ordine mentale al tempo stesso matematico e liberato nel sogno. Possedeva un forte temperamento mistico, ciò che non gli impediva di essere un ingegnere dei suoni, un costruttore di immagini al limite dell'astrazione.

Con amici ed esecutori motivati dal suo stesso furore innovativo, John Cage operò nella musica in prima persona, protagonista di concerti storici. Era molto americano anche il modo con cui giocava a fare il genio in grado di scoprire l'utilità dei mezzi elettronici e dar voce al pianoforte preparato, di usare i nastri magnetici, i suoni della realtà e del quotidiano portati – egli credeva – a dignità artistica. Era anche un modo di fare spettacolo che ebbe molti imitatori a cui va riconosciuto il merito di aver liberato la fantasia nella diversità. Convinto della necessità di inventare sempre e comunque qualcosa.

Cage, in questo iniziato dal padre, prese presto il gusto dell'avventura: fondò nel 1938 un'orchestra di percussioni e negli anni successivi sperimentò i nuovi mezzi che la tecnica più sofisticata dell'epoca poteva offrigli. Il suo fu un laboratorio musicale in piena regola, sempre nutrito di intenzioni di rinnovamento, un marchio personale che aveva significati profondi e si concedeva a tutti coloro che sentivano il bisogno di usarlo. Nel mondo della musica contemporanea, accanto e spesso in sintonia con i dodecafonici, Cage costruì un suo ambiente fantastico con rigore scientifico.

Non c'è contraddizione in questo modo di pensare, se l'immaginazione sostiene il certosino lavoro di scrittura e se l'artista può evadere in quelle sfere filosofiche e religiose che nei momenti giusti annullano i pesi della vita. In una dimensione di totalità, di unione fra musica, arti figurative e biografia, Cage contribuì in modo rilevante allo sviluppo della danza moderna americana; l'amicizia e il lavoro comune con Merce Cunningham, il seguace di Martha Graham più impegnato e severo, e l'apporto di artisti come Rauschenberg, permisero la nascita di alcuni balletti di grande importanza. In essi la musica si univa magistralmente alla Pop Art e a uno stile coreografico di assoluta perfezione grafica. Musica e danza diventavano luce e spirito, meditazione e fisicità.

L'operoso Cage ha composto una notevole quantità di musica e ha dato vita a tutta una serie di esempi spesso sfidando il buon senso comune. Tra le sue composizioni sono da citare 0' 00'', Sonate e interludi per piano preparato, Costruzione in metallo, Paesaggio immaginario n.1. Sono momenti, questi, di un percorso artistico compiuto con determinata volontà e con una punta di divertimento, e in più con una serena voglia di evadere.

L'uomo Cage poteva apparire, in questi ultimi anni, come uno sciamano, come un sacerdote di qualche rito magico, come un gentiluomo in vena di santificazione. Amava raccontare di lunghe passeggiate nei boschi, del piacere di scoprire piante, insetti e naturalmente quei funghi di cui era espertissimo; sognava un'America pulita senza odio e senza povertà, sperava in un mondo migliore privo di guerre e ricco di fratellanza. L'arte poteva essere una buona medicina per i mali del nostro pianeta, e la musica un grande conforto. Forse inconsciamente egli finiva per avvicinarsi a una grande idealista degli inizi del nostro secolo, la ballerina Isadora Duncan, la quale credeva che la danza libera insegnata ai bambini dagli operai rivoluzionari sovietici avrebbe potuto accrescere il loro quoziente di felicità.

Si presentava come un uomo comune, spesso in jeans, spesso con un cappello floscio, dicendo cose semplici, per niente aggressivo; e poi di colpo estraeva di sorpresa dal suo cervello le intenzioni musicali, i suoi giochi di prestigio senza frontiere. Amava molto l'Italia. Il nostro modo di cantare, di essere vivi; e ci amava anche perché il nostro Paese, diceva, è sempre più ricco di musicisti di talento, disposti a correre con lui verso i miraggi di terre da scoprire, di grandi spazi al di là della montagna e del fiume. In fondo era la sua California.

(torna alla Rassegna stampa)

John Cage. Musica e sberleffi

(di Sylvano Bussotti, La Stampa, venerdì, 14 agosto 1992)


(È morto mercoledì notte, nell'ospedale St. Vincent, a Manhattan, John Cage, profeta dell'avanguardia musicale. Aveva 79 anni. Lo ricorda per La Stampa il maestro Sylvano Bussotti, suo allievo e grande amico)

Si dice sconveniente fare mostra del proprio dolore. Mi perdoni chi legge, se confesso quel pianto irrefrenabile che assale alla scomparsa di un Padre. Non lo piangerà certamente la vil razza dannata dei musicisti di professione. E mi perdoni anche Rigoletto. Perché ho da confessare di peggio: quando ascoltavo per la prima volta le sue composizioni, non riuscivo a frenare lo stesso riso sguaiato di tutti quanti.
La musica del Ventesimo Secolo aveva, in America, il suo gran buffone, questa l'opinione soddisfatta e unanime che rassicurava, nel nostro bell'Occidente. Facile aderire alla sua semplice filosofia Zen, soggiacere al fascino del suo ridere perennemente, cibarsi di funghi assieme a lui. Purché lo si tenesse lontano dalla Musica. Teneva conferenze sul nulla e sapeva ubbidire con esattezza indifferente alle lancette degli orologi, tanto inesorabili nel segnare il Tempo.
Vedo come non riesco neppure a frenare, in questo povero scritto, l'eccesso di: Tempo, Musica, Padre. Vorrei salvarmi nel sorriso che, con gli occhi ancora umidi, possa guardare in faccia la realtà.

In Italia non fu celebrato alla Scala ma, tanto più prosaicamente, da Mike Bongiorno in televisione. È così che da noi divenne celebre, vincendo i modesti milioni del quiz Lascia o raddoppia?, guadagnati all'ultimo istante snocciolando la miriade di nomi latini delle più rare famiglie di funghi, velenosi o no. Era cosi paziente, gentile da rischiare davvero l'insuccesso, poiché accorgendosi come i commissari di trasmissione faticassero a spuntare dalle loro liste tutte quelle misteriose definizioni, aspettava pazientemente, per una volta lasciando andare la lancetta dell'orologio, senza farci attenzione, finendo assieme al gong del tempo che è scaduto.
L'indomani l'accompagnai lungo interminabili corridoi d'un treno zeppo di gente, che subito lo riconobbe festeggiandolo e anche motteggiando. John al colmo della felicità in quel bagno di folla giovanile – debbo dirlo? – si palpava letteralmente chiunque, maschi e femmine, tuffando mani vive tra quei corpi compressi l'uno sull'altro e dovetti evitargli non pochi scatti di reazione che avrebbero potuto finir male. Un vero scandalo.
Scandalo? Una maiuscola che ancora mi mancava. Lo schiaffo assestato da questo immenso artista sulla guancia cadente del mondo musicale risuona, lungo il millennio che non tarderà a scoccare, come la più perentoria delle cadenze.

Visse un sodalizio amoroso con Merce Cunningham, coreografo ballerino che con la sua compagnia e con i pianisti David Tudor e John Cage disegnava alle scene di danza del mondo intero i passi concreti dello stile, del caso. Scomparso in lui l'accento del coraggio di guardare diritto alla musica così com'è, mi si vuotano le orbite.
Ma se siamo in dovere di citarne almeno un capolavoro, sostenendone, come la commozione non m'impedisce di fare, il genio superiore, penso all'Altas Eclipticalis, sua partitura discesa direttamente dalle stelle nei tracciati incommensurabili dello spazio. Costellazioni capaci di trovare l'eco per qualsiasi espressione sonora, dalla più miserabile sbuffata che fischia nella pentola a pressione al suono puro e ineffabile della voce bianca.
Modello disegnato su pentagrammi chiusi ai più, John Cage lascia un'Arte della Vita in eredità ai soli artisti. Nessuno ha saputo esprimere tanto. Nessuno lo esprimerà più.

(torna alla Rassegna stampa)

I sorrisi dell'eroe

(di Luciano Berio, La Stampa, venerdì, 14 agosto 1992)


La notizia della scomparsa di John Cage mi colpisce profondamente perché lo pensavo intoccabile, come il rumore del vento, degli aeroplani, del mare, del traffico e degli uccelli, perché l'ho sempre amato e ammirato, e perché mi lega a lui una vasta e quasi soffocante quantità di ricordi, grandi e piccoli, pubblici e privati. Con John Cage muore un santo, un giocoliere, un eroe, un inventore, un umorista, muore cioè uno dei grandi uomini di questo secolo, che ha potuto combinare e sublimare con rigore e purezza i segnali e le impronte di percorsi tanto diversi. Sorridendo.

(back to the articles list)

Scandaloso Cage, giocoliere del suono

(di Paolo Passarini, La Stampa, venerdì, 14 agosto 1992)


(sottotitolo: allievo di Schoenberg, maestro di Stockhausen: scompare l'ultimo grande provocatore del Novecento; Gettò chiodi tra le corde del pianoforte)

Fino alla mia morte ci saranno suoni e continueranno anche dopo. John Cage, morto mercoledì notte a 79 anni in un ospedale di Manhattan per un colpo apoplettico, non aveva paura del silenzio, perché, molto semplicemente, credeva non esistesse. Una delle sue composizioni più celebri e scandalose, 4'33'', è costituita da 4 minuti e 33 secondi di silenzio, che, per lui, era 'non-silenzio', in quanto qualche rumore, qualche suono, sullo sfondo, doveva pur esserci. E nello spartito - suddiviso, con sublime senso dell'ironia, in quattro movimenti - Cage precisò che il pezzo può essere suonato da chiunque in qualunque posto. In difficoltà nel commemorare la sua mercuriale personalità, i giornali americani hanno dato un caldo addio al 'pensatore della musica', al 'filosofo del suono', anzi 'dei suoni'.

Musicista, certo, compositore, senz'altro, ma anche scrittore, poeta, pittore e tante altre cose, Cage era soprattutto, come lo definì il suo maestro Arnold Schoenberg, un inventore di genio. Le sue provocazioni avevano l'impatto della bomba atomica, mentre lui assisteva divertito e stupito, perché, come tutti i grandi provocatori, era dolce, mite e timido. La definizione di Schoenberg piaceva moltissimo a Cage, che amava ricordare come suo padre, appunto un inventore, gli avesse trasmesso quello che diventò poi il suo principio ispiratore: Mi spiegò che, quando la gente dice 'non posso' ecco, in quel momento ti indica un compito da svolgere.

John Milton Cage Jr. era nato il 5 settembre 1912 a Los Angeles, dove a 12 anni si esibiva già ogni settimana in una radio con un gruppo di boy scout. Ma non era certo un genio precoce come Mozart. Nel libro Un anno da lunedì confessò di non essere in grado di tenere un tono e di non aver alcun talento per la musica. Aveva invece, sicuramente, l'istinto dell'avanguardia intesa come professione integrale. Nel '30 Cage si trasferì a Parigi, dove entro in contatto con i dadaisti e divenne amico di Marcel Duchamp, con cui per parecchi anni continuò a ingaggiare interminabili e sfortunate partite di scacchi. Gioca molto bene – disse Duchamp – ma il suo problema è che non vuole vincere. Gli scacchi rimasero per tutta la vita una delle due grandi passioni di Cage, a parte l'arte. L'altra erano i funghi, sui quali Cage era un'autorità, sembra, di statura mondiale.

Tornato in California, Cage non ebbe alcun problema a intraprendere la carriera di cuoco, prima, e di giardiniere, poi. Le piante erano un altro grande amore. L'appartamento in cui viveva negli ultimi anni a Chelsea, un quartiere di New York, sembrava una ordinata foresta tropicale e Cage proclamava con orgoglio: Ho più di 200 piante. Naturalmente le 'ascoltava' e la sua opera Figlio di un albero era costituita dai suoni enormemente amplificati di piante alle quali erano stati attaccati sensibilissimi microfoni. A chi lo andava a trovare a casa, Cage chiedeva garbatamente: Ma la sente questa musica?. Si riferiva alle sirene, ai clacson, allo stridore di freni, ai botti e ai clangori che salivano da sotto, dalla trafficatissima Avenue of Americas.

Nel '45 Cage aveva divorziato dalla moglie Xenia Andreyevna Kashevaroff e, da allora, visse sempre con il coreografo Merce Cunningham, che gli sopravvive triste nell'appartamento di Chelsea. Per i balletti di Cunningham, Cage scrisse moltissima musica, la sua 'musica', che spesso era fatta con campane da slitta o da mucca, da lastre di acciaio sbattute, da oscillatori di frequenza, da radio sintonizzate, o da pianoforti 'trattati', cioè con chiodi, pezzi di carta o altro inseriti tra le corde. Fu forse l'unico compositore a essere fischiato dall'orchestra al termine di un'esecuzione, ma influenzò artisti importanti come i pittori Jasper Johns o Robert Rauschenberg.

Schoenberg, che lo considerava il suo allievo di maggior talento, trovava però sempre una scusa per non andare ai suoi 'concerti'. Era un grande maestro – ricordava Cage – Se seguivi le regole ti invitava a trasgredirle. Se le trasgredivi, ti rimbeccava: 'Ma non conosci le regole?' . A Cage, naturalmente, faceva sempre il secondo rimprovero.

(torna alla Rassegna stampa)

Sacerdote del silenzio

(di Giorgio Pestelli, La Stampa, venerdì, 14 agosto 1992)


(sottotitolo: valeva più lui della sua musica)

Con tutti i suoi sforzi per fare scandalo, John Cage se ne è andato in punta di piedi, dopo alcuni anni di silenzio o di rare apparizioni da cui ogni punta di provocazione si era ritirata in seconda linea.

Quanti ricordano la sua partecipazione vittoriosa al Lascia o raddoppia? di Mike Bongiorno come esperto micologo? Come musicista era già apparso per pochi invitati all'Accademia Americana di Roma, ma nessuno lo aveva collegato con il formidabile conoscitore di funghi apparso sui teleschermi; eppure quell'episodio era già indicativo della natura del personaggio: estroso, eterogeneo, attore, esibizionista e amico dei giochi inutili e pazienti.

Cage ebbe il suo grande momento negli Anni 50, quando la composizione determinata da princìpi seriali o paraseriali, spinta a un controllo razionale totale, si aprì con entusiasmo al rifiuto dell'idea stessa di linguaggio additata da Cage, con il suo culto per il caso, il gioco, l'esperienza aperta invece dell'oggetto preciso e concluso. C'era in più il tocco dell'Oriente, la nota sirena che periodicamente torna a affascinare l'Occidente quando l'edificio della sua storia e delle sue convinzioni morali non regge più al proprio peso: con l'invito alla dispersione, all'infinito amorfo, all'esalazione monotona, alle sonorità melliflue e rituali. Allora Cage era la parola d'ordine di chi sentiva, anche in campo musicale, il dovere culturalisticò di marciare al passo coi tempi; pronunciare il suo nome era diventato una strizzatala d'occhio: C'intendiamo, siamo tra i buoni, tra quelli che sanno.

La sua trovata più appariscente era stata quella del 'prepared piano', il pianoforte preparato, cioè imbottito fra le corde della meccanica di pezzetti di legno, chiodi, gomme per cancellare e altri oggetti che davano al glorioso strumento di Chopin e di Brahms la sonorità carezzevole del gamelan giavanese (peraltro già intuita da Debussy). Ma i pezzi più famosi di Cage sono più facili da descrivere come eventi pubblici che come fatti sonori: esecutori che frugano nel pianoforte e ne abbassano qualche tasto fra intervalli smisurati di silenzio, che si alzano per accendere una radio, grattare palline sospese in aria, attraversare l'intero palco per andare a rompere una pila di piatti.

Queste performance facevano dire a molti che Cage non conoscesse la musica, a cominciare da Schoenberg, suo impreveduto maestro a Los Angeles; tuttavia l'ascolto dei suoi lavori scritti negli Anni 40, in particolare Sonatas and Interludes del '46-48 per pianoforte preparato, suggeriscono invece un'agguerrita conoscenza delle tecniche combinatorie dell'armonia tradizionale. Ma Cage voleva liberarsi del passato e della storia, voleva giocare e rappresentare gesti informali, vuoti e privi di senso; in questo era guidato dal fiuto teatrale dell'attore, aveva il senso dell'ambiente, l'astuzia della situazione per cui i suoi gesti, le imprevedibili associazioni sonore potevano diventare rito e celebrazione e quindi fare scuola.

Soprattutto voleva scandalizzare, e si è detto che Cage è stato l'unico compositore moderno, dopo Schoenberg e Stravinski, in grado di fare ancora scandalo. Ma a ben vedere questi scandali erano poco sinceri, 'preparati' anche loro come il suo pianoforte; ed è strano che Cage, pur provenendo dal Paese fabbricatore per eccellenza dei nostri comportamenti culturali, pensasse davvero che ancora oggi, con l'invenzione dell'avanguardia di massa, qualcosa potesse scandalizzare qualcuno: finito, con la diffusione della musica registrata, un reale bisogno di sentire musica, questa può essere solo presentata come prodotto culturale, e quindi come tale devotamente accettata in qualunque forma.

Una approfondita conoscenza dì Cage, dei suoni legami con i grandi della musica americana, Ives e Varese, dovrebbe passare attraverso la sua fitta produzione ballettistica, a noi ignota, la sua collaborazione con personalità di spicco come Merce Cunningham, Carolyn Brown, il pianista John Tilbury. Così si può avanzare l'idea che Cage sia stato molto più importante della sua musica; Dopo Cage – disse Maderna – siamo tutti cageani; la sua influenza è evidente su Stockhausen, su Kagel, forse su alcune cose di Berio, perfino su Nono, malgrado la sua radicale opposizione teorica.

Io credo proprio di non essere molto adatto a tessere l'elogio dell'opera di Cage, rappresentando tutto ciò che mi è meno vicino come gusto e cultura; ma resterò sempre un ammiratore della persona: simpaticissimo, compito, vestiva con eleganza e parlava a bassa voce; era una presenza leggera e gradevole, un civilissimo sacerdote di quel silenzio che tanto lo ha occupato nel suo lungo viaggio ai confini della materia sonora.

(torna alla Rassegna stampa)

e John Cage parlava di Zen

(di Fernanda Pivano, Corriere della Sera, martedì, 18 agosto 1992)


(sottotitolo: un concerto, un incontro tra amici, le idee e i sogni del musicista americano in una sua visita a Milano nel 1956)

John Cage, un altro eroe degli anni '60, uno dei più geniali, portato via per sempre alla creatività e alla musica, era quasi italiano, sia per l'amore che ci portava, sia per la sua presenza assidua qui da noi. Lo ricordo ancora nel 1956, quando Giorgio Federico Ghedini lasciò usare ai suoi giovani amici la Sala Piccola del Conservatorio e Cage venne a eseguire il suo Musica per 2 pianoforti; era con lui già allora David Tudor, un grande virtuoso di Liszt che aveva rinunciato alla musica classica per seguire le innovazioni dell'amico.

Quella sera di dicembre il pubblico era ancora abbastanza ingenuo da sbalordirsi quando Tudor diede colpi di martello sulla cassa del piano e colpi di cacciavite sulle corde della coda. Sapevamo già in molti che la grande idea di Cage era ben più strana e di questo lo ascoltammo parlare, sorridente e calmo, quando dopo il concerto la casa mi si riempì di ammiratori, curiosi, colleghi e Cage spiegò la musica che aveva proprio inventato, creando la presenza del Silenzio, come accade in una stanza vuota quando si sente esplodere l'acqua dei termosifoni o in una stanza deserta quando si sentono vibrare gli squilli del telegrafo. Stava in piedi, fermo, coi suoi eterni jeans rifiutando bibite e pasticcini, rigorosamente macrobiotico; sorrideva a qualunque cosa gli dicessero, sia che lo canzonassero sia che lo adulassero sia che lo ammirassero.

Lo rividi spesso a Milano. Veniva per questo o quel festival o reading o riunione. Spesso era ospite di Gianni Sassi al Mec Hotel, dalle parti di viale Umbria, e lì si faceva tardi: si parlava delle nuove composizioni o di Rauschenberg che disegnava i costumi per le danze che musicava per Merce Cunningham o per il Black Mountain College dove con loro aveva fatto i primi happenings. Con gli amici meno mondani parlava del suo Zen che ancora lo incantava e attraverso di lui ci incantava.

L'ultima volta che lo vidi in una esecuzione importante fu a St. Paul De Vence. Era lì col gruppo di Cunningham e David Tudor col suo esercito di strumenti, come li chiamava lui. Erano invitati dalla Fondazione Maeght e avevano sistemato provvisoriamente il teatro all'aperto nel cortile di Jacometti. Quando arrivai lì il gruppo di danzatori (non certamente Cage) stava cenando: ciascuno prendeva uno sfilatino di prosciutto e qualche pera da enormi vassoi posati sulla pedana che serviva da palcoscenico.

Quella sera nel pezzo Come passare, Cage aveva recitato in un francese perfetto nella forma ed esotico nell'accento una serie di aneddoti entropici. Aveva un microfono fissato sul labbro, quattro sulla gola, uno sul petto e uno tenuto in mano: ogni microfono produceva un suono diverso e Tudor li riceveva tutti e sette su vari modulatori e li trasmetteva in diversi punti dello spazio, nel cortile, attraverso alcuni altoparlanti: il pubblico ne sentiva anche tre contemporaneamente. I preparativi di un altro pezzo comprendevano la sistemazione di due cavi elettrici per ottenere i disturbi della trasmissione, otto registratori, un fonografo, sei radio a onde corte, un generatore di onde, sei modificatori di suoni, sedici microfoni, tre trasformatori, sette altoparlanti e sette amplificatori. Erano gli strumenti di Tudor. La chiamavano Musica elettronica viva.

La sera tardi ci ritrovammo tutti in una trattoria coi tavoloni di legno spesso e i piatti in terraglia provenzale e le enormi scodelle di salade niçoise. Cage non mangiava e non parlava. Sorrideva. Vestito da contadino, trasmetteva col suo sorriso l'amore che lo legava alla musica, silenziosa o parlata o suonata, ma per lui musica. Il suo sorriso e il suo amore sono stati il suo messaggio. Siamo in molti ad averlo accolto e saremo in molti a non dimenticarlo come in uno dei suoi incantesimi: l'ultimo che ci avrà legato a lui.

(torna alla Rassegna stampa)

L'utopia di Cage

(di Michelangelo Zurletti, la Repubblica, martedì, 18 agosto 1992)


Con John Cage muore uno dei padri della musica del nostro secolo. Se fosse morto un nipotino del cinema o della televisione i giornali ne avrebbero parlato in prima pagina: sono pochi quelli che lo hanno ricordato convenientemente. Anche se attraverso le solite notizie di repertorio: Lascia o raddoppia?, in cui si presentò come micologo; 4'33'' in cui imponeva all'esecutore un silenzio della durata del titolo; alcuni Imaginary Landscapes in cui giocava con apparecchi radio a valvole e con decine di dischi suonati simultaneamente.

Qualcuno ricorda anche i frullati di carota, in cui il suono del frullatore unito al vocio del pubblico rappresentava l'evento musicale. Si potrebbe ricordare la peperonata alla Filarmonica Romana, quando lo sfrigolio dei peperoni nell'olio bollente, il rumore del pubblico, le diverse musiche diffuse dagli altoparlanti creavano uno happening musicale ghiottissimo. Si potrebbe sorridere ancora una volta della sommossa di pubblico che si sentì finalmente provocato sul serio e attentò all'incolumità fisica del compositore, che se la cavò con un paio di occhiali rotti e una risata più rumorosa del vocio dei lapidatori. Un rapporto impossibile.

Ma queste sono gag della vita musicale di Cage. La quale è ben altra e presenta all'inizio un episodio citato solo marginalmente e tuttavia decisivo: il rapporto didattico intrattenuto con l'altro padre della musica del Novecento, Arnold Schonberg. Era un rapporto impossibile. Schonberg insegnava all'allievo a formalizzare la musica su base razionale, Cage ventiduenne inalberava il vessillo della casualità, proponeva la rottura di tutte le forme. Schonberg procedeva con estrema coerenza dalla tradizione eurocentrica, Cage generalizzava l'estremismo degli americani Ives e Varèse.

Quel non-rapporto fu un evento disgiuntivo, che separò l'America dall'Europa molto più di un braccio di mare, sancì, più che la distanza, la diversità, la disomogeneità culturale dei due continenti. Toccò ai discepoli dell'uno e dell'altro cercarsi e realizzare un rapporto, quando i radicalisti eredi di Webern trovarono nell'alea un terreno aperto anche alle esperienze americane. Cage l'aveva scoperta da tempo, da quando aveva privilegiato sull'organizzazione formale la curiosità per il suono e lo aveva cercato - trovandolo – ovunque.

Suono non era soltanto il suono accademico, era qualunque evento classificabile acusticamente, preferibilmente quello che si produceva naturalmente e chiedeva soltanto di essere individuato, percepito, fermato. Oppure il suono classico rivisitato, aiutato da oggetti diversi a essere imprevedibile (Sonatas and Interludes per pianoforte preparato). E, se il suono era bello, era magnifico il silenzio, ossia il non-suono, o l'unione di tutti i suoni. E così il suo corrispettivo fisico, il nulla. Il silenzio e il nulla potevano anche essere amalgamati tra loro, generare la Conferenza su niente, interminabile monologo scandito da pause, pieno di luoghi comuni, che non voleva comunicare nulla e tantomeno messaggi ma che, alla fine, catturava l'ascoltatore che avesse rinunciato a cercarvi senso e si fosse abbandonato al piacere delle vocali, velari, fricative, alle incertezze della pronuncia, che si fosse dedicato ai puri suoni del più umano degli strumenti. Era un apparente bla-bla strutturato in partitura. E Cage sapeva benissimo come strutturare i suoni, conosceva le tecniche tradizionali.

Ma non erano queste a interessarlo, gli piaceva di più scoprire e liberare i suoni oltre i confini statuiti. Il suo insegnamento fu essenzialmente questo: aprirsi all'altro, godere di ogni suono come di una scoperta regalata dalla natura. Dopo Cage, siamo tutti un po' cageani, si disse. Voleva dire che malgrado tutte le cattive accoglienze la sua lezione era stata recepita. Il capolavoro di Cage è il dubbio che ha insinuato in tutti. Fu una staffilata a tutti i Fratelli di Davide e naturalmente a tutti i filistei. Questi non si accorsero dello staffile, quelli ne ebbero ferite: che bruciano ancora. E si rigenerarono: la musica degli anni Sessanta-Ottanta non è immaginabile senza Cage.

Naturalmente, la necessità di formalizzare l'informale, per poterlo presentare, nasconde una contraddizione, quella di dar corpo all'utopia. Un treno è un treno, carrozze piene di suoni imprevedibili e altri prevedibili; ma se si prende un treno, quello diventa il treno. Ed è difficile ricostruire artificialmente il rumore naturale di un treno, non basta scegliere carrozze, bande, musiche di fondo. In natura esiste forse la spontaneità, la cultura la ignora; e se c'è, come si dice, è indetto. Il suono come utopia. Anche il respiro delle piante, il fruscio degli insetti captati dal microfono. Non c'è poeta che non aspiri al suono impossibile.

E poeta era Cage certamente, anche quando svelava artificiosamente suoni che la natura voleva segreti. Oppure, al contrario dell'infinitamente piccolo, l'infinitamente grande, come quando aprì tutte le finestre di un Conservatorio in piena attività (A House Full of Music) sul pubblico raccolto nel cortile. Code sonore di mille classici che diventavano pantano acustico, impossibile coacervo di fatti significativi che diventavano globalmente insignificanti. La confusione come evento. Certo che era dissacrante. A chi rinnovava il rito del concerto, usciva di casa, attraversava la città e entrava nel tempio della musica vestito da ascoltatore si poteva ben regalare il silenzio come anticoncerto, o la confusione come evento o la peperonata come alternativa.

Il rifiuto del concerto come rito era il rifiuto della società che produce concerti-rito, e che produce tante altre cose simili al concerto, dove non c' è più spazio per l'evento non pianificabile, dove la vita è sostituita e annientata dalla programmazione. Cage in America era un untore: mostrava la saggezza e gli si guardava il dito. Perché era inutile ascoltare un suo lavoro con la disposizione di sempre: ogni sue pezzo dimostrava che c'è vita e armonia nelle imperfezioni della carta, nei numeri dei dadi gettati, nella disposizione delle stelle, perfino nei rumori quotidiani delle metropoli. Bisognava liberare il fanciullo che è in noi e lasciarlo sintonizzare sul respiro dell' universo. Che esista questa musica, o questa altra musica o questa non-musica lo sanno tutti. Soltanto, ora non c'è più chi abbia il coraggio di dirlo.

(torna alla Rassegna stampa)

I funghi, la macrobiotica e il segreto di un sorriso

(di Landa Ketoff, la Repubblica, martedì, 18 agosto 1992)


Tra poche settimane John Cage avrebbe compiuto 80 anni. Ne era felice. Ci era capitato di udire qualcuno fargli la sciocca domanda che ogni anziano famoso si sente fare, prima o poi: Ha paura della morte?. No, aveva risposto con un lampo di ironia negli occhi. Come si fa a far capire che si può non aver paura della morte ma desiderare di incontrarla il più tardi possibile perché si ama la vita? La scelta della macrobiotica, l'eliminazione dell'alcol e del fumo erano amore per la vita, scelte fatte, come ci aveva confessato, non per seguire mode ma per salvarmi.

All'inizio, molti anni fa, per salvarsi da una forma grave di artrosi, più di recente per salvarsi dai capricci di un cuore malato. Una mania, quella per la macrobiotica, che non ammetteva deroghe ed era l'incubo di coloro che lo ospitavano. Ricordo una volta in cui, ignara affatto di diete macrobiotiche, avevo creduto di fare il massimo preparandogli verdure bollite. Bollite in acqua? Giammai. L'abbiamo visto per l' ultima volta a Perugia meno di due mesi fa. Il corpo era assai malandato, ma lo spirito era vivacissimo. Solo la sua caratteristica, irrefrenabile, contagiosa risata era diventata più rara, piuttosto un sorriso, che però tutto lo illuminava.

Non nascondeva che i festeggiamenti per gli 80 anni gli facessero piacere e, nonostante l'evidente stanchezza, non esitava a mettersi in viaggio per essere presente, al Moma di New York, come a Perugia, a Firenze e in altre parti del mondo. Aveva promesso di essere anche a Colonia nel prossimo settembre per la 'prima' di un suo lavoro che si intitola 103, perché 103 sono gli strumentisti che, nel concerto che egualmente si farà, saranno guidati da un orologio digitale gigante anziché da un direttore.

Lo rallegrava l'affetto dei giovani d'oggi per i quali sentiva di non essere un santone imbalsamato di un'avanguardia superata, ma un musicista demolitore di miti che insegnava ad ascoltare. Perché Cage aveva fatto sua l'affermazione trovata nel Diario di Henry David Thoreau, filosofo, poeta e naturalista americano: La musica esiste dappertutto e sempre; è solo l'ascolto che è intermittente. Dal celebre trascendentalista americano dell'Ottocento, aveva preso anche l'indipendenza del pensiero, la profonda semplicità, l'interesse per il prossimo e l'amore per la natura.

Sorrideva nel sentirsi considerato un prodotto del dopoguerra dai molti che dimenticavano che il pianoforte preparato risaliva alla fine degli anni Trenta, alla stessa epoca i suoi esperimenti anticipatori della musica elettronica, e a poco dopo la sua collaborazione col ballerino-coreografo Merce Cunningham (che durerà una vita) con esiti che sconvolsero il mondo della danza. Era nota la sua profonda conoscenza dei funghi. Verso la fine degli anni Cinquanta, complici Luciano Berio e Umberto Eco, aveva partecipato a Lascia o raddoppia? di Mike Bongiorno vincendo cinque milioni. Un'esperienza che l'aveva divertito moltissimo.

Perché proprio i funghi? Anche qui, come per la macrobiotica, alla base c'era una ragione pratica. Povero in canna durante la Depressione, per qualche tempo si era nutrito di funghi che trovava dalle sue parti in California. Per controllare se erano buoni era andato in biblioteca e, affascinato dall'argomento, aveva avuto voglia di approfondirlo sempre di più. Solo l'amore per la musica, o meglio, per i suoni, era stato istintivo, non nato da ragioni pratiche. Dapprima il pianoforte, poi la composizione, che aveva tentato di studiare con Schonberg, allora docente all'Università di Los Angeles.

Ma (non è difficile capirlo) l'incompatibilità tra i due era troppo forte, sebbene reciprocamente si stimassero. Schonberg gli aveva detto che non era un compositore ma un inventore, forse non intendendo fargli un complimento. Tale, però, lo considerava Cage, orgoglioso di essere figlio di un inventore che gli aveva insegnato a pensare a modi diversi di fare le cose, e nel 1912 aveva inventato un sottomarino che aveva battuto il record di immersione.

Cage era stato protagonista dei 'roaring fifties', epoca d'oro per l'America, diventata una fucina di idee, e New York un punto di raccolta delle intelligenze creative di tutto il mondo. Con Cunningham, Tudor, Rauschenberg, Duchamp e tanti tanti altri aveva dato vita a happenings, performances, spettacoli irripetibili. L'I-Ching gli aveva insegnato a giocare con l'alea, nella filosofia Zen aveva trovato un sostegno al suo individualismo, nel gioco degli scacchi un modo di esercitare l'arte della pazienza e quella dell'ascolto: i rumori dell'ambiente, del traffico, il vibrare delle piante (in casa ne aveva oltre duecento), il respiro del partner, il proprio. Tutto lo interessava. Non conosceva la noia. Soleva ripetere la massima Zen: Se qualcosa ti annoia dopo due minuti tentane quattro, otto, sedici, trentadue. Finirai per scoprire che non esisteva noia ma interesse vivo.

(torna alla Rassegna stampa)